IL NUOTATORE RIVOLUZIONARIO

*ogni riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale

Il nuotatore rivoluzionario

ogni bracciata a crawl è un’insurrezione

un grido di protesta

il muro dove qualcuno ha scritto “rivolta” direttamente col tubetto

ogni bracciata

pare voler squassare l’intera piscina

o l’intera società

ribaltarla, gettarla nel caos

scavarla, benché subito si richiuda

Il nuotatore rivoluzionario

quando arriva te ne accorgi all’istante: è lui

per come schiaffeggia l’acqua

non nuota

schiaffeggia

la società capitalista e nemmeno più borghese

nella sua ignorante indifferenziata liquidità

salvo eccezioni – che comunque non vede

(il nuotatore rivoluzionario è cieco)

Quando arriva mi fa ridere di gusto

è una risata di ammirazione

è una risata di approvazione

So che un giorno rovescerà il sistema

e tutta l’acqua lo seguirà, magicamente

e smetterà di richiudersi

di ritornare piatta

diventerà una gran scultura

o più che altro una STRUTTURA

nella quale ciascuno si riflette

ed è, a modo suo, rivoluzionario.

(immagine da: https://www.shutterstock.com)

W. Wenders, Perfect Days

Le cose come sono. Come sono le cose? Sono così.

Guardando Perfect Days vengono in mente gli scritti di grandi “maestri di presenza”, orientali e occidentali: Thich Nhat Hanh, Eckhart Tolle, il nostrano Corrado Pensa e, per l’appunto, il giapponese Suzuki Roshi.

Guardando Perfect Days si vive un’esperienza simile a quella meditativa, intendendo con il termine “meditazione” la coltivazione della piena presenza mentale sia da fermi (meditazione seduta/formale) che in movimento (meditazione informale o piena presenza durante le attività quotidiane).

Guardando Perfect Days si ritrova quella capacità, semplice eppure difficile, di “stare nelle cose”: “belle”, “brutte”, “neutre”; una presenza completa, che fa capo alla cosiddetta mente-cuore.

Il film restituisce tale connessione attraverso lo sguardo, equanime e allo stesso tempo partecipe, di Hirayama.

Sono giorni perfetti perché la piena presenza li inietta di sé stessi: si sente di più, si vive fino in fondo la realtà – interna ed esterna.

È il contrario della proliferazione emotivo-concettuale, di quel “sonno sveglio” che stordisce e rende assenti.

Caro Wenders, quanto falso movimento da disinnescare! Quanta disconnessione da riconnettere.

Quanta attesa, contemplazione, viaggio e vagabondaggio e trascendimento dell’io sono serviti per intuire questo autentico “abitare la vita”? Per risiedere pienamente nel corso del tempo.

Con il suo ritornare su oggetti, gesti, volti, ombre, scorci e paesaggi per vederli (e farli vedere) meglio, Perfect Days riesce nel miracolo di riprodurre quella condizione di piena e vivida presenza.

Il protagonista è potentemente aderente alle cose. La sua capacità si è affinata grazie a ritmi più lenti e a una routine –  ripetitiva e tuttavia sempre nuova – che insieme costituiscono la base per affrontare gli “imprevisti emotivi”: se qualcosa lo scuote, ha imparato a includerlo in quella presenza (senza censurarlo, né al contrario lasciarsi sopraffare). C’è sempre una pace ad avvolgere il turbamento.

Wim, ti sei proprio meritato questo “risultato che non è mai risultato” ma una tensione calma, che va continuamente rinnovata – con umile determinazione.

E’ LA pratica – un ripetuto invito ad esserci – il filo che collega quei “giorni perfetti” che Hirayama è così abile a inanellare.

La nuova cura

Futuro-casa
immagine da yaqui.forumfree.it

Un gruppo di nuovi pazienti era in procinto di partire mentre il precedente stava rientrando. In attesa di salire a bordo, Diane li aveva osservati scendere dalla scaletta: erano belli, di ottimo umore e in perfetta forma fisica. I “guariti”. Si aspettava benefici di entità ben più modesta e subito pensò che fosse tutto finto; uno spettacolo a loro uso e consumo organizzato dal direttore sanitario, che aveva assunto appositamente degli attori per persuadere chi stava partendo della buona riuscita di quella costosissima terapia. O, se non di attori, poteva trattarsi di un selezionato campione di individui, per i quali l’esito del soggiorno su Ink39 era stato particolarmente benefico.

Per farla accomodare a bordo avevano dovuto mettere assieme tre sedili. Dal basso i chirurghi in camice azzurro e le infermiere in completo rosa salutavano animatamente. Le hostess, in divisa identica a quella delle infermiere, ma di colore giallo, si erano comportate come fosse un loro compito abituale, per nulla stupite dalla sua stazza. Enorme e cascante, Diane si muoveva come una grossa lumaca, stanca e sudata. Le diverse parti del suo corpo erano nascoste sotto strati e strati di adipe, che la facevano apparire come un unico e indistinto aggregato di carne. C’era voluto un po’ per abituarsi a quell’ambiente che, come tutti gli spazi limitati, la esasperava. Poi si erano accesi i motori e l’abbagliante complesso dei Laboratori Fab era rimpicciolito sempre più, fino a sembrare una zattera e svanire sullo sfondo verde del pianeta.

Ricordava bene come tutto era iniziato. Si era sentita sola, a quattordici anni, dopo il trasloco dei suoi. Il nuovo quartiere era privo di circoli ricreativi, di giardini, di biblioteche, di locali per giovani: solo villette e giardini. Non un paese ma un dormitorio a perdita d’occhio. Alle scuole superiori, unico possibile contesto socializzante, non c’andava: i suoi le avevano preso un’istitutrice perchè convinti che in zona ci fossero solo strutture pessime, frequentate da poco di buono. Così, se le davano il permesso di uscire , andava dritta ai ristoranti automatici. In zona c’erano solo Quad Jona o da Urger thing. Amava tutte quelle immagini allegre di coetanei che si divertivano sulla spiaggia o attorno al fuoco. Sulla ruota panoramica o in qualche pittoresco locale. Baci, risate, chitarre, moto e vacanze: sempre, naturalmente, con in mano un prodotto Quad o Urger.

I suoi odiavano cucinare e compravano colazione, pranzo e cena solo in quei posti. Era capace di raddoppiarsi i pasti, pur di mettere il naso fuori di casa, Diane. Certo, c’erano gli ambienti surrogati, tramite i quali era in contatto con gli amici delle scuole medie, ma la sua vita reale si era traumaticamente interrotta e non c’era modo di ricominciare, con l’istitutrice alle calcagna.

Di anno in anno questa dieta aveva dato esiti distruttivi: oltre a disturbi intestinali, problemi di pelle e di denti, Diane era diventata enorme, proprio come i genitori. Le sedie normali risultavano inadatte ad accoglierla, fragili miniature. Ne avevano dovute comprare di nuove, in negozi specializzati. Nel giro di pochi anni anche divani, poltrone e letti erano arrivati al logoramento. Si muovevano come pachidermi in una casa che non sembrava più la loro, quasi fossero una razza aliena costretta temporaneamente ad adattarsi allo stile di vita umano.

Allontanò quei ricordi, con questo viaggio finalmente riusciva a intravedere una via d’uscita. Ogni tanto aspirava profondamente dalla mascherina dell’ossigeno: tutti i pazienti disponevano di una bombola personale, dalla quale spesso erano dipendenti da anni, a causa di una cronica ipoventilazione. Diane si volse al finestrino: la navicella stava attraversando il passaggio fra due delle tre lune di Ink39. Lo spettacolo lasciava senza fiato. Erano bianche e luminose come le arcate dentarie dei pazienti che quella mattina aveva visto rientrare dalla terapia. Come quelle dei medici stessi, delle loro infermiere rosa, delle hostess, degli stewart, dei piloti. Che fosse da lì che estraevano il materiale per eseguire maestose operazioni odontoiatriche?

Pochi minuti e, dopo un bagno di nuvole grige, sbucarono proprio sopra alla nuova clinica, pressoché identica a quella da cui erano partiti, salvo per il colore delle uniformi di dottoresse e infermieri, che salutavano con fervore i nuovi arrivati. Su Ink39 la gravità era leggermente inferiore a quella terrestre e scendendo dalla scaletta avevano provato un senso di sollievo. I movimenti risultavano meno gravosi per le persone nelle loro condizioni. Li fecero accomodare nella sala di benvenuto, a un lungo tavolo, circondato da sedie grandi e comode. Tutti erano, all’incirca, nelle condizioni di Diane: non solo fuori forma ma fuori dall’umana forma; come se il contorno dell’uomo vitruviano si fosse improvvisamente trovato in esatta congiunzione con quello del cerchio in cui era stato inscritto.

Alcuni camerieri arrivarono trascinando carrelli ingombri di tazze e brocche, colme di un liquido ambrato, simile al tè. Un medico entrò nella sala e spiegò brevemente che, per la prima settimana, si sarebbero dovuti attenere a una dieta che prevedeva l’assunzione massiva di liquidi, nella misura di tre-quattro litri giornalieri di quella tisana. La sua ingestione rappresentava una fase propedeutica e indispensabile, in vista della terapia vera e propria.

Nella clinica poltrone ma anche sedie, letti e sanitari erano stati progettati apposta per accogliere quei pazienti. Ogni ostacolo dovuto a barriere architettoniche era stato eliminato e, come in un hotel di lusso, quasi ovunque era possibile rivolgersi a personale cortese e competente. La sera dopo cena ci si radunava in una grande sala circolare, dove Diane e tutti gli altri obesi gravi potevano discorrere, giocare a carte, assistere a performance musicali, ballare persino – nei casi più fortunati. I pazienti erano contenti di trovarsi fra simili, non più additati e giudicati. Durante i pasti, gustosi ed elaborati in base alle esigenze individuali, si congetturava sulla cura, che sarebbe stata illustrata solo al termine dei sette giorni. Tutti erano ansiosi di sapere ciò che li aspettava, in che cosa consistesse il miracolo promesso. Trascorsa la settimana, caratterizzata da una catena quasi ininterrotta di occasioni sociali e momenti di condivisione, la mattina dell’ottavo giorno Diane sentì bussare alla sua porta.

«Signora Tight, il momento è arrivato. Il medico vuole vederla»

«Me sola? »

«Sarete tutti visitati singolarmente, signora Tight, come sulla Terra»

Si era già abituata a far parte di un organismo collettivo, che seguiva con diligenza le istruzioni dello staff medico, una visita individuale le sembrò quasi insolita. Subito però ricordò con quanta trepidazione aveva atteso quel momento. Indossò il suo poncho estivo con le farfalle e si aggrappò al braccio dell’infermiere. Entrambi salirono su una pedana mobile, camminare era davvero diventato impossibile. Gli studi medici e i laboratori d’analisi si trovavano nell’ala opposta rispetto alla zona residenziale dei pazienti. L’edificio era enorme e ci impiegarono quasi un quarto d’ora.

L’infermiere la depositò davanti al medico, un uomo sulla cinquantina di bell’aspetto e dal fisico atletico, che le sorrise.

«E’ pronta a diventare farfalla, Sig.ra Tight? »

Diane arrossì e annuì senza rispondere.

«Allora deve firmarmi questo foglio, in cui dichiara di non rivelare a nessuno la natura dell’intervento a cui sarà sottoposta»

Con le sue grasse dita goffe, più simili ormai a salsicciotti che a falangi, Diane firmò.

«Loro la stanno aspettando e sono ben contenti di poter risolvere il suo problema»

«Loro chi?»

«Gli organismi mangiagrassi, naturalmente»

Mentre lo diceva, il medico alzò la veneziana di una finestra interna. Al di là del vetro, una grande stanza vuota, al centro della quale troneggiava una grossa poltrona, ricoperta da una folta pelliccia nera.

Diane si spaventò: era davvero una poltrona? O un orso addormentato in quella strana posizione?

«Da qui può osservare l’intero trattamento, senza essere vista» chiarì il dottore.

Di lì a poco entrò una sua compagna di sventura, grassa poco meno di lei, completamente nuda. Era uno spettacolo spiacevole. Sembrava un enorme cero, rosa e afflosciato.

Aiutata da un’infermiera la donna affondò sulla strana morbida poltrona. Quasi invisibili da quella distanza c’erano delle cinghie, nere anch’esse, con le quali fu legata all’altezza della vita e delle ginocchia. Gli arti superiori restarono liberi.

«Stia tranquilla, andrà tutto bene» disse l’infermiera, mentre le iniettava qualcosa con una piccola siringa.

Poi si dileguò con rapidità, chiudendosi alle spalle un solido portone, quasi una porta blindata. Si udì il clangore degli ingranaggi di chiusura e solo a quel punto, il dottore sollevò uno sportellino sulla consolle dei comandi e spinse un bottone grigio. Subito la poltrona cominciò a vibrare, come certe fasce elastiche di un’epoca ormai remota, pubblicizzate in tv da imbonitori del dimagrimento.

I peli della poltrona cominciarono ad allungarsi e ondeggiare, diventando simili ad alghe sinuose. In effetti non erano mai stati peli: erano proprio alghe, sulle quali minuscoli bruscolini grigi correvano incessantemente. I bruscolini erano migliaia, forse milioni, e cominciarono a ricoprire la donna, che subito entrò in agitazione. Seguirono alcuni istanti quasi disperati, poi un improvviso abbandono. Gli esserini formavano una sorta di coltre vibrante e producevano un brusio costante, come di insetti. Lentamente, sotto quella viva coperta, Diane vide pezzi interi dell’amica sparire, come cancellati dalla gomma di un disegnatore. Le creature la consumavano con estrema rapidità e del tutto incruentemente.

Il medico osservava sorridendo lo sconcerto di Diane..

«Sugli anelli di Saturno si trovano cosette interessanti, le pare? »

Diane era senza parole. Ad un tratto l’amica, che ricordò improvvisamente chiamarsi Clara, con la mano destra premette un pulsante rosso seminascosto sul bracciolo. La fervente attività si interruppe, tutte le minuscole creature si ritirarono velocemente come erano uscite. Le alghe tornarono ad accorciarsi e la poltrona sembrava di nuovo un orso in letargo. Ma la vera trasformazione l’aveva avuta Clara. Sullo schermo apparve la scritta: Clara Dwaight, 52 chili x 1m e 65 cm.

Una bella donna, stordita e barcollante, si alzò in piedi, rivelando la totale assenza di segni dell’accaduto.

L’infermiera, che non si aspettava quella repentina ripresa, si precipitò all’interno della stanza per sostenerla. L’epidermide di Clara era perfetta, compatta e luminosa, priva di cicatrici, piaghe o smagliature.

Diane, in un’esplosione di entusiasmo, cominciò ad applaudire.

«Allora Sig.ra Tight, è pronta alla trasformazione?

Pochi minuti dopo sedeva sulla strana poltrona, con l’infermiera che si accingeva a legarla e a somministrarle quello che doveva essere un blando tranquillante.

Chissà quanti altri trattamenti erano stati fatti e sarebbero stati fatti, quella mattina. La porta si chiuse alle sue spalle. Come odiava quel grasso, rappresentava tutta la solitudine patita prima di essere ciò che era e tutta la solitudine futura che avrebbe dovuto sopportare, se fosse rimasta tale. Se non ci fossero stati loro, gli animaletti di Saturno. Cari, piccoli voraci animaletti. Meglio dei gatti, dei cani e dei cavalli. L’idea che l’incubo sarebbe finito di lì a poco le sembrava impossibile. Ancora pochi attimi e sarebbe stata magra, bella, benvoluta.

Il brusio ebbe inizio e, proprio come Clara, si trovò coperta da quei “bruscolini” vibranti. La sensazione era piacevole, come di un massaggio su tutto il corpo. Impossibile allarmarsi. Si era appuntata mentalmente le direttive del medico: prema il pulsante rosso non appena sente un forte e improvviso prurito. Mi raccomando, lo faccia immediatamente. Diane era lì e ci ripensava, mentre centimetri e centimetri del suo corpo svanivano e gli arti ritrovavano la mobilità perduta. Persino i muscoli facciali riacquistavano vigore, dopo essere stati per anni seppelliti sotto l’adipe.

Mentre cospicui brani di sè andavano perduti, sembrava che i suoi innumerevoli ricordi spiacevoli scomparissero, interi continenti di sconforto che colavano a picco. Quando infine avvertì il pizzicore, era in uno stato che si avvicinava alla beatitudine. Avrebbe desiderato premere il pulsante, ma quegli animaletti – anche se a prezzo di quel leggero fastidio – la stavano facendo diventare leggera, sempre più leggera. Una voce le sussurrava che magra era troppo poco: voleva essere magrissima, riuscire a sfiorare le proprie ossa. Di sè voleva conservare solo l’essenziale, che alla mente fosse definitivamente sottratta la dolorosa memoria del corpo.

Si trattenne, quindi, sopportò. Dall’altoparlante una voce la richiamò, la pregò, e poi supplicò, più e più volte. Prema il pulsante, Sig.ra Tight, si affretti! Sig.ra Tight… Sig.ra Tight… Diane! Ne va della tua vi… La voce del medico si affievoliva. La sensazione di libertà cresceva. Meraviglioso era essere magra, finalmente magra, magrissima… così sottile da attraversare i capelli dei giovani più belli, come una folata di vento estivo.

1919 – 2019

nonna Maria Luisa de Stefano Vasic

Lo specchietto con la Venere che mi hai regalato era un invito e un monito. Voleva ricordarmi tutte le tue mattine davanti allo specchio, una cura amorosa dell’aspetto che volevi fosse anche mia. Quando mi dicevi “sei spettinata”era solo per ricordarmi di non trascurare la Bellezza, cosa che richiede sforzo e dedizione perchè va ad aggiungersi alla cura degli aspetti più essenziali – etica, intelletto, sensibilità, cultura, carattere – e la completa;

ne offre al mondo un’immagine visibile, concreta.

Ad ogni modo, cara nonna, liscia e corvina, tu sei inarrivabile io sempre un po’ spettinata.

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Orsi

Quando te ne sei andato

con solo 1/8 di ossigeno

abbiamo scavato una piccola buca

quando te ne sei andato, tossendo

noi tossivamo tutti

anche il bimbo, che ancora non sa che sei andato

“Orson ha graffiato il dottore?” ci aveva chiesto

quando te ne sei andato

dopo tredici anni

di carezze, spazzolate, sgridate, salti, peli, occhiate

e molte urla per richiamarti a casa                                                  (Orsi! Orsi! Orson!)

ignoravo l’entità del danno

Senza età, sinuoso, misterioso, scontroso:

ti ricordiamo nelle tue forme concrete.

L’ultima notte hai riposato qui accanto

un muro a separare noi nel letto da te, nella scatola

rannicchiato mucchietto.

C’era un amore che dalle nostre nuche lanciava cordami rossi

per riportarti indietro. Ma sei andato.

Oggi ti abbiamo calato, posato e benedetto

e il sole ha illuminato quella buca

scavata con il giardiniere cortese

sul bordo dell’oliveta

accanto ad altri animali;

stasera, alla luna, vi immagino parlare

gatti, cani, uccelli insieme

ombre amiche

libere da leggi di sopravvivenza

orsi

più antica l’età dei certi manufatti, più essi sembrano emanare un’aura di serenità e distacco. Non importa se le civiltà che li hanno prodotti fossero sotto molti aspetti sanguinarie o spietate… essi hanno espiato quella carica attraverso interminabili secoli, giungendo a noi quasi disumanizzati, o meglio: sovraumanizzati. Non mi stupisco che nella letteratura alcune civiltà antiche siano state fantascientificamente associate a specie aliene superiori; gli oggetti (che di esse ci sono rimasti) sembrano aver “espiato” la loro umanità attraverso il tempo e si apparentano bene a tecnologie avanzate, dove l’intelletto sembra affermarsi irreversibilmente sulle passioni

ragazzo interrotto

Enrico Lombardi, La strada interrotta (2006) – acrilico su tela – cm80x100 (Courtesy Coll. Privata) in E. Lombardi Il grido silenzioso, Electa Mondadori, Milano 2007.

Ragazzo interrotto

I fiocchi cadevano fittamente. La maxinsegna sull’edificio di fronte informava che tramvia e metro erano fuori servizio. Greta osservava sorpresa il Viale dell’Università ostruito da veicoli  abbandonati a metà strada dai guidatori. I finestrini emergevano dalla coltre bianca come accessi di un’estesa galleria, di cui si ignorava la fine.

L’unico modo per raggiungere la propria destinazione era arrivarci a piedi. Fortunatamente la strada verso casa era riparata da portici, che si susseguivano senza interruzioni per un lungo tratto, fino a una vecchia caffetteria frequentata da studenti. Da lì in poi bisognava proteggersi come si poteva. La ragazza faticava a interrompere quel confortevole tragitto per indossare la divisa termica, quindi entrò nel locale, scelse un posto davanti alla vetrata e ordinò.

Fra i riflessi verdi e beige dei rivestimenti d’altri tempi c’era Cosimo, che beveva tè e sfogliava un libro. I capelli spettinati e umidi bagnavano il colletto della sua camicia bordò. Lo vedeva spesso in giro, per la prima volta era stato a un concerto o forse a una festa. La incuriosiva fin dai tempi della scuola, ma il suo atteggiamento indifferente l’aveva convinta a tenersi a distanza.

Eppure di natura sarebbe stato una persona d’indole socievole, Cosimo, erano le circostanze ad averne fatto un ventenne schivo, quasi disadattato. Essere adattato presuppone un interesse per l’ambiente che nè lui nè i suoi avevano. Studiosi di astrologia e cabala, i genitori si autoesiliavano in biblioteca per la maggior parte del tempo. Abitavano in città ma vivevano in una dimensione parallela: due strampalati adulti che si curavano poco delle necessità pratiche della vita. Era già molto che uscissero dal loro studio stipato di libri per fare la spesa, pagare i conti e, una volta l’anno, trasferirsi al mare quando l’afa diventava insopportabile. La casa in cui vivevano con i figli – Cosimo e sua sorella maggiore – era stracolma di oggetti inutili o inutilizzati, disseminati su scaffali polverosi, ammucchiati su tavolini, pavimenti e persino dentro una vasca da bagno. Per i Winnicott la cosa più importante non era che i figli andassero bene a scuola ma che conoscessero a memoria i volumi della biblioteca di casa, che a detta loro custodiva informazioni impossibili da reperire altrove. Greta aveva sentito diverse voci sulla famiglia. I nonni di Cosimo commerciavano tessuti pregiati ed erano stati non solo maghi dell’imprenditoria ma, si diceva scherzando, maghi veri e propri. I genitori di Cosimo cercavano invano di emularne le gesta.

Fuori la neve continuava a scendere imperterrita. Pensare che la situazione potesse placarsi nell’immediato era irrealistico. Pur conoscendolo solo di vista, Greta si alzò e gli si sedette di fronte, abbandonando il suo tavolino e la tazza quasi vuota del cappuccino.

Davanti all’inaspettata apparizione, il ragazzo ebbe un lieve sobbalzo.

«Ciao Cosimo, hai ascoltato Weatherpush? »

Le dette appena un’occhiata e tornò a sfogliare il volume.

«Non lo uso più da anni…»

«E’ ancora il più attendibile dei meteovisori. Ho il cellulare guasto… avrei bisogno di avvertire a casa. Mi presti il tuo?»

Cosimo la fissò infastidito. Poi, rendendosi conto che la situazione di emergenza lo richiedeva, le porse il telefono.

«Anna, sono Greta. Sto bene. Sono con Cosimo Winnicott… sì che lo conosco… è tutto bloccato ma stai tranquilla, tornerò a casa a piedi»

Greta posò il telefono sul tavolino e lo fissò intensamente. Il ragazzo distolse lo sguardo.

«Hai da fare?»

«La Facoltà è chiusa. Noi… mi ricordi come ci conosciamo?».

Il ragazzo tentò di formulare la domanda in modo amichevole, ma il tono gli uscì sarcastico.

«Noi due non ci conosciamo! – scoppio a ridere Greta – mi accompagneresti ugualmente per un tratto?»

Cosimo si era sempre sentito un alieno, ignorante dei meccanismi delle relazioni umane, del gioco delle parti, delle regole sociali. Aveva dovuto, come un ragazzo selvaggio sbarcato in terra civilizzata, definire cose e situazioni senza una figura da imitare. Arrangiarsi, in un’affannoso tentativo di raggiungere un reale che rimaneva sempre distante, come nel paradosso di Achille e la tartaruga. Almeno fosse stato un uomo-lupo, un uomo-scimmia, un uomo-serpente. Forse gli altri lo avrebbero scusato. Durante gli anni della scuola gli insegnanti lo etichettavano come “introverso”. A ripensarci gli sembrava di trovarsi sotto il dominio ottundente di qualche demone. Quanto tempo perso! Il suo volto che attraversava gli inverni quasi immutato, stava rischiando di “invecchiare nuovo”.

«E allora… a cosa stai pensando? Ci incamminiamo?» lo pungolò Greta.

«E’ strano che ti sia avvicinata senza conoscermi, come se per te fosse naturale»

«Parliamo continuamente con persone che conosciamo appena o con sconosciuti…»

«Cosa vuoi dire?»

«La tecnologia… che aiuta a non sentirsi soli. Ma per vivere occorre realtà!»

«Sul termine “realtà” ci sarebbe molto da discutere…»

« Penso che i mezzi ci distraggano e ci sbriciolino, in un certo senso. Ci si disperde in un impegnato… disimpegno»

«Sei certa che ci sia una grande differenza?»

«C’è, eccome. La presenza fisica è fondamentale. L’abbiamo solo dimenticato»

«Cerchi esattamente ciò che io evito. Gli altri mi creano troppi problemi perchè riesca a essere me stesso. Già è molto che sia capace di esserlo da solo»

«Paure… sono le paure a crearti certi problemi. Io medito. Aiuta ad alzare il livello di comprensione di sè, delle cose»

«Quindi sarebbe tutto nella mia testa? Può anche darsi. Ma la solitudine è meglio di quello che pensi, è dedicarsi alle proprie passioni in pace, lontano da inutili banalità»

«Meditare è solitudine. Ma sono gli altri che ci aiutano a diventare meglio di ciò che siamo, più veri. Ci sono paure, Cosimo, che ti rifiuti di affrontare»

Il ragazzo si sentiva sospeso in uno stato di vaghezza, senza riuscire ad aggrapparsi nè a un pensiero nè a un’emozione precisa. «Mi conosci appena» si limitò a risponderle.

Parole che gli erano state ripetute spesso, quelle, con l’unico risultato di irritarlo. Adesso era come se dal vuoto avessero assunto una concretezza che le rendeva affrontabili. Gli sembrava di poterle toccare fisicamente, come le sedie sparpagliate della caffetteria. Per la prima volta non se ne sentiva sminuito e offeso. Greta era una forza della Natura. Senza rendersene conto, misteriosamente, gli offriva le risorse per sopportarle.

Quando uscirono dal caffè il quartiere era irriconoscibile. Uno spesso strato di neve aveva privato gli edifici dei loro dettagli architettonici, riducendoli a forme geometriche essenziali; sembrava di muoversi fra costruzioni impilate da un bambino. Si presero a braccetto sotto quel flusso morbido, ovattato, ininterrotto. Come la maggioranza degli studenti, fuori dalle aule usavano ben poco la divisa, ma in quella situazione furono costretti ad ammetterne la provvidenzialità. Fra le opzioni possibili, era indicata “Bufera”. Garantiva la quasi totale impermeabilizzazione e un’avanzata termoregolazione, capace di contrastare gli effetti dell’abbraccio continuo della neve. Ogni cosa di solito mobile era immobile, tranne quei fiocchi bianchi, silenziosi. Pochi i passanti. Solo la sirena di piccoli spazzaneve gialli interrompeva di tanto in tanto quella profonda quiete.

Dalle finestre dei primi piani, spesso prive di tende, si potevano scorgere gli impiegati lavorare in ambienti iperriscaldati con la camicia tirata sui gomiti come fosse una giornata di inizio autunno. Alcuni facevano la pausa caffè godendosi lo spettacolo di quel bianco, che perentoriamente azzerava i normali ritmi.

Durante eventi naturali così condizionanti è confortante osservare quanto sia illusorio il piccolo potere del superiore – del capo reparto, del preside, dell’insegnante, del dirigente –  messo a confronto con la Natura. Una Natura dalla quale l’uomo si stava allontanando sempre più per costruire il proprio mondo surrogato, di creature artificiali e fenomeni ambientali simulati.

Sulla mente di Cosimo quell’ambiente fece l’effetto di una gomma gigante. Il flusso di pensieri, che tanto lo inibivano dal vivere pienamente, si era acquietato. L’ego che si puntellava su infiniti ragionamenti per difendersi, era uscito di scena. Aveva voglia di silenzio e il bisogno di conservare intatte le proprie sovrastrutture – spesso gli accadeva con le ragazze –  era scomparso. Che strano… Greta lo trasformava con la sua sola presenza. Era accanto a lei, con le cose, in ascolto. Lei gli raccontò dei suoi primi due anni alla facoltà di Medicina, di quanto fossero severi i professori. Di quanto, con quella durezza spesso artefatta, cercassero di impartire ben più che un mestiere e delle nozioni. Al di là delle difficoltà, era contenta di quella scelta. Contenta di essersi stabilita a New York, dove risiedeva una comunità di praticanti di samatha-vipassana, la disciplina che praticava da quasi dieci anni.

«Vuoi raccontarmi qualcosa di te? »

«Adesso non ne sento il bisogno, è strano»

«Avevo voglia di parlarti da molto tempo… dagli anni della scuola»

«Dici davvero? »

«Prima non era il momento giusto»

La neve, l’incontro, avevano ricondotto Cosimo a una specie di grado zero. Esisteva solo un vasto campo bianco con due puntini neri. Si era scrollato di dosso le etichette mentali come fossero un mantello. Il tonfo del mantello aveva vaporizzato dappertutto quella perfetta neve. Ogni cosa aveva improvvisamente una propria collocazione. Anche le mezze verità desunte attraverso la propria visione autoreferenziale. Sì, aveva vissuto un po’ fuori dal mondo ma il mondo gli era entrato dentro. Anche la sua famiglia, ora lo sapeva, non era poi tanto male. Tutt’altro.

Si udirono i rintocchi di mezzogiorno e il sole era un vaghissimo bagliore, bianco nel bianco. Attorno alla cattedrale avevano acceso candele di cera autentica, protetti all’interno di lanterne trasparenti. Durante questi eventi metereologici anomali, il vescovo aveva disposto di intensificare gli omaggi alla divinità in quel modo suggestivo, quasi una richiesta di protezione che anticipava il Natale.

Immobili sul sagrato, Greta e Cosimo udirono un rumore attutito, di qualcosa che lentamente si stava avvicinando. Era una carrozza turistica, senza passeggeri a bordo, trascinata da un cavallo meccanico. Ma il materiale di cui era fatta sembrava autentico legno, come quello di una volta. I ragazzi la osservarono ipnotizzati. Due ruote ben salde sulla Terra, il cui moto era fluido e privo di esitazioni.

racconto gentilmente edito da Massimo Acciai Baggiani

sulla rivista online  “I segreti di Pulcinella”

La sedia (8. pozioni di parole)

Partecipo con piacere e divertimento al “gioco delle sedie” di uncielovispodistelle con questo racconto breve. Chi vuole proporne uno può scrivere a: paolo.beretta.email@gmail.com

Un cielo vispo di stelle

L’edificio era grigio, mastodontico, esprimeva una sorta di materialità perenne. Prima, al suo posto, c’era un palazzo razionalista, demolito negli anni Settanta, ma era come fosse radicato lì da sempre. Solo il lettering dell’insegna verticale “ARCHIVIO DI STATO” commemorava il più mondano predecessore, progettato dall’architetto Cetica per la GIL (*). Era immobile negli anni e per i secoli, l’Archivio, con le sue centinaia di scaffali, occupati da migliaia di volumi, contenenti a loro volta milioni di carte. Che ci si trovasse in una struttura istituzionale, lo si avvertiva fin dal principio; un’incarnazione dello Stato in senso tradizionale, quasi freudiano, figura della Legge e del Padre.
In tempi d’incerta “modernità liquida”, varcare quella soglia provocava in Giada sensazioni ambivalenti: stabilità, sicurezza, rigore. Un luogo dove riporre, conservare, ordinare e preservare il mondo dalla sua stessa essenza impermanente. Un luogo paradossale – certo – dove la novità si insinuava a fatica…

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